Questo articolo inaugura una nuova serie nel mio blog con la categoria: “Racconti di una nutrizionista”.
Uno spazio dove condividere la mia esperienza personale e professionale. Inizio da un tema controverso: ne ho scritto su Instagram e ne è scaturito uno scambio di messaggi con diverse colleghe, alcune in linea con il mio pensiero, altre incredule e sorprese da questa mia scelta.
Quando ho iniziato questo blog, nel 2015, era tutto più romantico
Nel 2015 ho iniziato a scrivere sul blog ed è stato per me un periodo davvero romantico. Andavo agli incontri per freelance e si parlava di comunicazione, di arrivare alle persone attraverso la scrittura di articoli sul blog, di come ottimizzarli in ottica SEO e di scrittura professionale.
Fino al 2019, scrivere sul blog per me è stato super piacevole.
Lo facevo nel weekend, era uno spazio di autenticità e ho raccontato moltissimo di me, in modo sincero e aperto, perché dietro una professionista c’è prima di tutto una persona.
Poi il 2020: la pandemia, l’esplosione dei social, i canali inondati di video, consigli, pubblicità. Nel 2020 ho scritto il mio secondo libro ed è stato così impegnativo da tenermi lontana dal blog per un po’. Quando ho pensato di riprendere a scrivere ormai stava cambiando tutto.
La comunicazione a cui ero abituata si stava trasformando: si parlava per lo più di essere esperti, di comunicazione persuasiva ed efficace, di scalabilità e di video virali.
Così ho lasciato il posto della Veronica persona che parlava anche delle sue esperienze, alla sola Veronica professionista che scriveva articoli per dare consigli, consigli e ancora consigli (3, 5, 7 – come indicavano gli esperti di marketing) e per dimostrare al mondo dell’internet di essere autorevole nel suo campo.
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Oggi siamo tutti esperti di qualcosa – e se non lo sei allora la percezione è che non vali abbastanza come professionista
Gli effetti della comunicazione post pandemia sono sotto gli occhi di tutti. Dei miei sicuramente: ovunque io mi giri sono tutti esperti di qualcosa.
Per quella che è la mia esperienza, le cose sono cambiate da un po’ e lo vedo anche dai messaggi che ricevo sui miei canali, con domande di ogni tipo dando troppe cose per scontate, come per esempio il dover rispondere sempre e comunque con una soluzione.
Quando provo a spiegare che alcune domande non sono di mia competenza, mi viene rinfacciato che da esperta sono davvero scortese a non rispondere. Sottolineando così che sul sito mi pongo in un modo che non corrisponde alla realtà.
Sebbene ci siano sempre persone che mi scrivono con gentilezza e rispetto professionale (che ringrazio perché, oggi, la gentilezza sembra non essere più scontata), stanno aumentando sempre più quelle frustrate, maleducate, scortesi.
Senza rendersi conto che un professionista per essere tale rispetta un codice etico e deontologico in cui non può dare consigli via messaggi né fornire soluzioni sulla base di qualche sintomo, in un mondo che rimane del tutto virtuale.
Il risultato è un effetto boomerang che produce un grande paradosso:
1) un mondo virtuale dove si spinge il professionista a una performance sul web che ha poco a che fare con la pratica clinica in studio.
2) un aumento della sfiducia nei confronti degli stessi professionisti. E questo è dovuto alla differenza fra ciò che le persone percepiscono nel virtuale e ciò con cui si confrontano nel reale, dove poi rimangono confuse e deluse dall’esperto di turno.
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Perché scelgo di non definirmi (più) un’esperta
Le persone percepiscono ciò che gli viene fatto vedere sotto gli occhi tutti i giorni, in ogni canale social che frequentano: e cioè che siamo tutti esperti. Super esperti di qualcosa.
Che noi esperti abbiamo tutte le soluzioni, per tutti i problemi. Cioè quello che il marketing incoraggia ancora e ancora nella comunicazione: fornire soluzioni, risolvere problemi.
Quando la realtà è ben diversa e chiunque faccia davvero clinica nel proprio lavoro dovrebbe saperlo.
Siamo proprio noi a essere diversi, unici, irripetibili, con le nostre costellazioni di sintomi e segni, dove ogni tassello fa parte di un puzzle più grande da ascoltare, comprendere, completare.
E allora no, non mi definisco più un’esperta.
Non mi interessa essere un’esperta, mi interessa occuparmi della complessità.
Osservarla, studiarla, approfondirla. Comprendere come si sono originati i segni che ogni persona porta su di sé, dentro di sé e come me li racconta. Come li sente, come li vive, come li percepisce.
Io non ho soluzioni per tutti i problemi, ma ho il desiderio di trovarle insieme a chi vuole farsi accompagnare in un percorso.
Chi mi ha dato fiducia negli anni e continua a farlo, sa quanto io sia disponibile, attenta, concentrata sulla persona e sulla sua complessità. Per aiutarla a comprendere i suoi sintomi, a leggerli e a leggersi. A cercare insieme soluzioni che siano in linea con la sua unicità.
E questo per me è l’aspetto più importante, quello che conta di più.
L’etichetta di esperta in questo momento della mia vita e della mia professione non mi risuona più e non la troverai nemmeno su questo sito!