Oggi è uno di quei giorni in cui le cose da dire sono tante, troppe. E così scrivo questo articolo sull’essere freelance, per raccontare cosa voglia dire davvero, al di là delle apparenze.
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La mia storia, dal 2011 a oggi
Era il 2011 quando decisi di aprire la partita IVA.
In realtà, non avevo molta scelta: per avviare la mia professione l’unica opzione era aprire la partita IVA. Iniziai qualche mese con la ritenuta d’acconto e poi andai dritta all’agenzia delle entrate per fare questo passaggio.
Nel 2016 mi sono trasferita a Torino e ho iniziato a frequentare incontri, workshop e giornate dedicate ai freelance, scoprendo che aleggiava il terrore di aprire la partita IVA. Un’opzione che suscitava molti dubbi e altrettante paure in chi lavorava in aziende, società o agenzie e desiderava cambiare. Un’opzione che per me era (e continua a essere) lo stato naturale delle cose.
Della stessa idea non era invece mio padre, che mi invitava a cercare un posto fisso o un contratto in azienda, così da stare “tranquilla”. Un ragionamento che comprendo perfettamente: intere generazioni sono cresciute con l’idea del posto fisso. Un’idea che, se ci guardiamo attorno oggi, non rispecchia più la società in cui viviamo.
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Quanto (ci) costa essere freelance?
E arriviamo quindi al punto. Quando (ci) costa davvero essere freelance?
Sulla risposta vorrei ragionarci insieme a te.
Per quello che mi riguarda, la metà dei guadagni vengono destinati alle tasse da pagare allo stato, all’ente di previdenza per la pensione (nel mio caso privato) e alle quote per l’albo professionale.
Per ciascuna consulenza, quindi, so già che il 45% va messo da parte per questi aspetti.
Sul netto che rimane, cioè il 55% circa, vanno sostenuti i costi per l’assicurazione professionale, i corsi di aggiornamento a pagamento (obbligatori nei professionisti sanitari), gli affitti dell’ambulatorio, il mantenimento di software di lavoro, le apparecchiature con pezzi di ricambio, il sito internet e gli aggiornamenti annuali del computer. E nessuna di queste è detraibile in un regime forfettario, sono tutti costi vivi.
Il 55% netto diventa quindi un 35%.
In ultimo, ma non per importanza, avere una partita iva vuol dire non avere giorni di ferie né giorni malattia retribuiti. Vuol dire inoltre non poter detrarre dalla propria dichiarazione dei redditi le spese sanitarie (che tutti ci troviamo in qualche misura a sostenere). Quest’ultimo punto poi, da professionista sanitaria che si trova a far detrarre le proprie prestazioni, mi risulta davvero incomprensibile.
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Le collaborazioni professionali: opportunità che nascondono insidie
Collaborare: una parola che sa di bello, di opportunità e di certezze, se le collaborazioni dovessero essere continuative. E invece non è assolutamente così.
Le poche collaborazioni che ho accettato nei miei 15 anni di libera professione si sono confermate, in un modo o nell’altro, uno sfruttamento mascherato da opportunità.
Ho collaborato con aziende con fatturati milionari e sono durata poco più di un anno. Mi sono resa conto ben presto, infatti, che a fronte di un corrispettivo discreto mi hanno “spremuta come un limone” (rimanendo in tema di cibo). E ho scoperto con tanta delusione che, se parte mia c’era il desiderio di fare bene il mio lavoro e aiutare le persone, dall’altro lato (quello aziendale) l’obiettivo è quello di trarre il massimo profitto con il minimo investimento. Supportati dal fatto che, se io smetto di collaborare, ci sono tanti altri professionisti in fila dopo di me.
Le collaborazioni con cliniche e istituti privati non sono certo più generose: al professionista è richiesta una provvigione del 30-40% su ciascun paziente. Non a giornata, non a tempo, ma a paziente: questo vuol dire che si guadagna sia sulla prestazione del professionista che sul paziente.
Quando alzo gli occhi e mi guardo intorno, scopro che ormai quasi tutte le persone che conosco sono assunte con un contratto a partita iva: creativi, architetti, avvocati, ingegneri, medici. Ho scoperto di recente che persino nelle ASL hanno iniziato ad assumere in questa modalità, laddove le ASL rappresentavano il posto fisso per eccellenza. Sono quindi le cosiddette “finte partita iva” e ora sai anche tu come mai sono definite così.
Per ciascuna partita IVA quindi, a guadagnare sul nostro lavoro non è solo lo stato. Ci sono anche aziende, cliniche e chiunque ci vorrà proporre una collaborazione con il sorriso di chi ti offre una bella opportunità (visibilità inclusa ovviamente, nell’epoca dei social).
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Il costo più alto: la salute fisica e mentale
Due righe su questo punto, perché il costo più alto alla lunga rischia di essere proprio la salute psicofisica. Un paradosso per chi, come me, lavora in ambito sanitario.
I liberi professionisti si trovano spesso a lavorare senza orari, a mantenere un’incessante attività mentale anche quando si spengono le luci dello studio e del computer. A caricarsi di responsabilità con l’infinita burocrazia (tutta italiana) da gestire, come se fossimo delle aziende, quando in realtà siamo spesso solo persone singole. A districarci anche in campi che non sono il nostro, come la gestione della comunicazione, del sito e dei social.
Tutto questo perché, per essere freelance, sono io stessa il mio strumento di lavoro: uno strumento di cui provo a prendermi cura, al meglio delle mie possibilità.
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Come professionisti, siamo davvero liberi? E a quale costo?
Ho provato a sintetizzare in qualche riga di questo articolo cosa vuol dire davvero oggi, in Italia, essere freelance. Quali sono i costi, in termini economici e di salute fisica e mentale. Perché, con un quadro così, bisogna diventare equilibristi e cercare di portare avanti tutto, con le nostre risorse umane e professionali.
So bene che agli occhi di chi mi guarda dall’esterno l’immagine è quella di una persona realizzata che ha una vita facile. La realtà però è che questa vita provo a costruirla pezzo dopo pezzo e con un grande lavoro su me se stessa, in termini di crescita personale e professionale.
Arrivo alle conclusioni con la domanda: ma siamo davvero -liberi- professionisti? E a quale costo?
La risposta è tanto complessa quante sono le diverse tipologie di lavoro coinvolte. Scrivendo questo articolo sono sicura di aver rappresentato lo scenario di molte/i freelance come me. Nella conclusione però posso parlare solo per me stessa e per la mia esperienza.
Sì, io mi ritengo libera.
E se ancora oggi, dopo 15 anni, scelgo di essere freelance, a fronte dei costi economici e psicofisici, è perché esserlo mi consente di portare avanti i miei valori e la mia etica.
Perché mi ritengo libera di non accettare tutte quelle proposte di collaborazioni che in realtà sono uno sfruttamento professionale e umano. Uno sfruttamento intellettuale, prima ancora che fisico, dove vieni spinta verso prestazioni eccellenti a fronte di un guadagno al limite della sopravvivenza.
Mi ritengo libera di rifiutare il corteggiamento di cliniche private e poliambulatori perché mi rifiuto di dare le mie competenze ed energie a delle società che hanno a cuore il loro benessere, guadagnando sul professionista e sul paziente.
Libera di avere meno visibilità sui social per non dovermi sentire obbligata a prescrivere integratori e rimedi di aziende che sui social vanno fortissimo, ma che poi hanno prodotti di dubbia qualità.
Mi ritengo libera perché non devo scendere a compromessi con nessuno se non con la mia coscienza, quella che mi permette di dormire tranquilla e di svegliarmi serena. In quanto ogni giorno prendo le mie decisioni solo nell’interesse della persona che ho di fronte.
E ringrazio immensamente che sceglie di rivolgersi a me. Chi si prende del tempo per leggermi, chi non cerca informazioni vere per tutti e soluzioni rapide, bensì tempi lenti, riflessioni e ascolto nel rispetto della propria unicità. Chi prenota un colloquio telefonico con me per ascoltare la mia voce, comprendere il mio approccio e aspettare per un appuntamento.
Sì, mi ritengo libera per davvero e grata di poterlo essere.